Francesco Vinci, la costante tragica ed enigmatica del Mostro di Firenze

Francesco Vinci, il manovale, il dongiovanni, il marito, il bullo di periferia, il violento, il ladro di pecore, il bandito dell’Anonima sarda, l’assassino di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, il fratello del Mostro di Firenze, lo zio del Mostro di Firenze, colui che ha ceduto la pistola al Mostro di Firenze, il Mostro di Firenze, l’amante di Milva Malatesta, il conoscente di Pacciani e Vanni, quello morto ammazzato con i testicoli infilati in bocca, incaprettato e poi bruciato vivo nella sua Volvo.
Estate 1982. Il Mostro di Firenze ha già ucciso quattro coppie quando gli inquirenti in qualche incompresa maniera si accorgono che la pistola del misterioso assassino ha già sparato nel 1968, a Castelletti di Signa. Lo stabilisce una perizia balistica. È dunque quello il primo delitto del “maniaco”, di cui nessuno si era ancora accorto? Il fascicolo viene riaperto. Sembra chiaro che Francesco Vinci, un villacidrese emigrato in continente, era stato troppo frettolosamente escluso dalle indagini e che fosse lui l’autore di quel duplice omicidio. Lo ribadisce anche Stefano Mele, l’unico condannato in via definitiva per il delitto. La magistratura inquirente e i carabinieri gli credono. Parte la caccia all’uomo, ma Vinci, dopo aver occultato la sua auto in Maremma, si è già fatto di nebbia. Quando a Ferragosto viene arrestato, pare fosse sul punto di espatriare. Gli inquirenti sono cautamente soddisfatti: se, come credono, il sardo ha sparato nel 1968 con l’arma del Mostro, allora è lui l’assassino che sta terrorizzando la Toscana.
Una pistola che ha già sparato non passa mai di mano, si dice.
Settembre 1983. Il Mostro, quello vero, colpisce a Giogoli. Francesco Vinci viene dunque scagionato per quei crimini terribili – rimarrà tuttavia altri mesi in carcere per scontare pregresse condanne. Nel giro di poco, però, vengono travolti dalle indagini l’amato nipote Antonio, l’odiato fratello Salvatore e altri isolani di stanza in Toscana legati a Stefano Mele: è la pista sarda. La lunga e fallimentare traiettoria investigativa si chiuderà senza alcuna proiezione giudiziaria solo nel dicembre 1989, quando il giudice istruttore Mario Rotella, pur convinto di un coinvolgimento nei delitti dei sardi e in particolare di Salvatore Vinci, in mancanza di una prova reale (come avrà modo di specificare lo stesso magistrato, nel senso di un oggetto, e cioè della pistola del Mostro) e a cagione di altre complesse vicissitudini istruttorie e processuali, firmerà una tombale sentenza-ordinanza di proscioglimento per tutti gli indagati, Francesco Vinci compreso. Ciononostante, a distanza di trentacinque anni, molti studiosi che si occupano di questa vicenda cercano ancora frammenti di Mostro di Firenze dalle parti di Villacidro.
Proviamo a spiegare perché fanno bene.

Tra quelli che abitano la periferia della più grande epopea criminale d’Italia, Francesco Vinci, al di là del ruolo che gli si vuole appioppare e al di là delle variegate e spesso buffe posizioni della letteratura digitale mostrologica, è l’unico personaggio secondario per davvero sempre presente (o quasi) in ogni traccia investigativa e a ogni altezza di tempo: dalle primissime indagini sul delitto del 1968, amante geloso e vendicativo, assassino per una notte, a quelle degli anni Ottanta, omicida seriale di coppiette, almeno fino al delitto di Giogoli del 1983; poi ancora, negli anni Novanta (ri)buttato postumo nella mischia dal suo amico Calamosca come vettore di armi e di segreti del Mostro, e infine tirato incredibilmente in ballo pure da Giancarlo Lotti al processo ai Compagni di merende – “il sardo con la barba”. Verrebbe da pensare che soltanto la sua violentissima morte, nel 1993, gli abbia evitato una passerella testimoniale l’anno successivo, al processo Pacciani: se non fosse stato ucciso, e se il sostituto procuratore Canessa lo avesse messo in lista testi, cosa avrebbe detto Vinci? La domanda è oltremodo retorica ma la risposta serve qui a tratteggiare la caratteristica principale dell’individuo: il balente a costo di beccarsi una condanna per reticenza (capirai che paura…), sarebbe stato zitto. Perché lui non è un infame, e con gli sbirri – cioè, dal suo distorto punto di vista malavitoso, con qualsiasi uomo dello Stato – non ci parla. Lo sa bene Piero Luigi Vigna, uno che ha saputo maneggiare e far “cantare” criminali di ben altra caratura, ma non il Nostro (e a dirla tutta nemmeno il Mostro).
Tuttavia, Francesco Vinci ha continuato a essere tante cose anche da morto, tranne una: sé medesimo, materialmente inteso come la sua salma. Per un po’ di tempo, dal novembre 2024 (riesumazione presso il cimitero di Montelupo Fiorentino) fino al marzo 2025 (risultati dell’esame del DNA), dalle parti del sardismo più ortodosso, si era ipotizzato – ma verrebbe da dire che forse si era un po’ romanticamente sperato – che non appartenesse a lui il corpo dentro la bara dove è scritto il suo nome. Eppure, nel 1993 erano già stati svolti degli accertamenti scientifici (identificazione con tecniche di odontologia forense) sul cadavere carbonizzato trovato nel bagagliaio della sua auto a Garetto di Chianni, e questi avevano stabilito che sì, quei denti erano proprio quelli di Francesco Vinci.
Perché, allora, insistere sulla non autenticità di quella salma, dopo più di trent’anni?
La ragione è che Francesco Vinci è una costante tragica ed enigmatica della vicenda Mostro di Firenze. Costante, per le ragioni dette sopra; tragica, perché attorno alla sua vita si addensano morte e distruzione; enigmatica, poiché la sua intera esistenza così come il suo ruolo all’interno di questa saga sono un mistero fitto. Preso atto che quello del Mostro di Firenze è un meccanismo gigantesco e delicatissimo, perennemente inceppato sulla verosimiglianza, sulla logica (o presunta tale) e quasi mai reso fluido dai troppo pochi pezzi di verità a disposizione, è necessario rendersi conto che per farlo funzionare non dico bene – sarebbe da presuntuosi solo sperarlo – ma appena decentemente, questo meccanismo ha bisogno che proprio il piccolo ma decisivo ingranaggio che è rappresentato da Francesco Vinci venga inserito al posto giusto, e ben oliato. Perché, a seconda di dove lo si colloca e di quale ruolo gli si attribuisce, cambia il mondo del Mostro di Firenze, dall’inizio alla fine: dal 21 agosto 1968 (data del delitto di Castelletti di Signa) al 19 marzo 2025 (giorno della divulgazione dei risultati delle analisi del DNA che confermano che la salma riesumata è la sua).
A ben vedere, però, in questa infinita saga criminale, di scambi di cadavere – accertati! – che hanno determinato un grave peggioramento del funzionamento del meccanismo di cui sopra, se ne sono già visti. Nulla di nuovo, dunque. E l’ipotesi che Francesco Vinci avesse simulato la sua morte per fuggire lontano da Firenze, anzi dall’Italia, meglio dall’Europa, non avrebbe provocato il terremoto storiografico e investigativo che a un certo punto si era prospettato – o sperato. Certo, al netto dell’ipotesi abbandonata dalla verità processuale prima e da quella storica poi che Francesco Vinci banalmente fosse il Mostro di Firenze, magari da solo, ci sarebbe stato da prendere in serissima considerazione, una volta di più (e come se ve ne fosse bisogno), la possibilità che tutto quello che aveva detto Calamosca fosse vero, che le parole di Lotti pure fossero vere, e che in definitiva, guarda un po’, non era mica vero quel che si diceva sulla Beretta, cioè che una pistola che ha già sparato non passa mai di mano (citofonare al Ministero della Sanità, campanello: famiglia Banda della Magliana – NAR)
Riordiniamo i tasselli: Francesco Vinci, secondo l’amico e malavitoso Giovanni Calamosca, aveva posseduto la pistola del Mostro di Firenze ed era stato fatto fuori per ragioni legate al segreto su quell’arma; Giancarlo Lotti, condannato in via definitiva assieme a Mario Vanni per aver commesso con Pietro Pacciani gli ultimi quattro delitti del Mostro aveva riferito di aver visto Francesco Vinci a San Casciano con qualche compagno di merende, e di aver saputo proprio da Vanni e Pacciani che il delitto di Giogoli era stato fatto proprio per farlo uscire di galera. Sì, c’è da farsi girare la testa a immaginare il sardo che uccide Locci e Lo Bianco nel 1968, ma se la cava e non va in galera e poi cede l’arma ai sancascianesi che iniziano ad ammazzar coppiette, una nel 1974 e poi negli anni Ottanta non si fermano più. Come c’è da farsi girare la testa a immaginare il sardo che da una parte ha timore di essere il custode della verità sulla Beretta, dall’altra vuole guadagnarci qualcosa, e magari si rende protagonista di qualche intemperanza o fa qualche ricatto. E c’è da farsi girare la testa ancora di più a immaginare che i sancascianesi, largamente intesi, non per forza i tre o quattro Compagni di merende, abbiano fatto eliminare quell’idiota sempre meno utile, anzi ormai pericoloso.
Ebbene, non è forse quest’ultima la traiettoria storiografica più logica e verosimile da sposare , che è valida sia oggi, con la conferma che quel corpo è di Francesco Vinci, che era valida ieri, quando per un momento si era accarezzata l’idea che non fosse lui dentro quel loculo, e che a ben vedere è valida da sempre, a far data dalle parole di Calamosca nel 1997, che aveva testimoniato di aver saputo dal suo amico Francesco che era proprio lui il detentore originario di quella maledetta arma e che l’aveva ceduta dopo il delitto del 1968 a coloro che poi dal 1974 avrebbero iniziato la sequenza di delitti del Mostro di Firenze?
Già, la pistola Beretta calibro 22 della serie 70, quella che ha sparato nei sette duplici omicidi del Mostro, più uno. Secondo alcuni interpreti, spesso generosi e coraggiosi paladini della criminologia profilazionista statunitense, l’autentico filo conduttore della sequenza omicidiaria, una sorta di oggetto magico ben saldo dall’inizio alla fine nelle mani – le uniche! – del terribile maniaco assassino, una firma, un’arma quasi idealizzata; secondo altri, invece, arrivata nelle mani dei Mostro di Firenze dopo il duplice omicidio del 1968, uno strumento comodo in ottica criminale, un’arma talmente sporca che diventa pulita perché chi segue “all’indietro” quel pezzo di ferro va fuori strada, cioè verso i fratelli Vinci e la famiglia Mele, impantanandosi nelle sabbie mobili del delitto di Signa. Una pistola che peraltro ha avuto una sola e banale funzione, tutta di carattere strategico: neutralizzare la coppia nel minor tempo possibile e basta, per poi incidere le carni, rubare qualcosa oltre alla vita e vilipendere una volta di più Carmela, Susanna, Pia e Nadine. Perché, ma diciamolo sottovoce, la vera arma “magica” del Mostro è il coltello.

Author: Roberto Taddeo

Avvocato e autore di "MDF La storia del Mostro di Firenze", Voll. 1, 2, 3 (Mimesis edizioni 2023), curatore de "Il labirinto del Mostro di Firenze" (AA.VV. Mimesis edizioni 2025), direttore della collana Le notti della Repubblica (Mimesis edizioni). È consulente della Commissione parlamentare sui fatti del Forteto (2024 a oggi).

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