Il caso Bruno Caccia: il colpo di genio della Procura trent’anni dopo

La Magistratura ce l’aveva nel sangue Bruno Caccia. Era una questione di famiglia, una famiglia di quelle vecchio stampo, sabaude, di Cuneo, tutte d’un pezzo. Nel 1941, Bruno, fresco di laurea “Magna cum Laude” vince il concorso e percorre tutte le tappe, diventando prima Procuratore ad Aosta e poi Sostituto alla Procura Generale di Torino, nel 1967. A 50 anni, dunque, arriva in una delle Procure che saranno più segnate dall’”autunno caldo” del 1969.
Di quell’emergenza il Procuratore Capo Caccia si occupa con assoluta dedizione, dimostrando una capacità e un metodo d’indagine assolutamente innovativo per l’epoca. I pestaggi durante gli scioperi divennero per lui il punto su cui lavorare per sconfiggere quello che di lì a poco accese il fenomeno brigatista che a Torino conosce negli anni 70 l’apice più cruento. Caccia ha grande intuizione, ed è a lui che si deve il coordinamento tra le tante operazioni di quegli anni quella che porta alla cattura di Renato Curcio.
Nel 1980, nominato Capo della Procura si concentra su quello che riconosce essere ora la minaccia che incombe sulla rinascita economica del Piemonte: la permeazione da parte delle cosche calabresi che cercano (e riescono in parte) ad appropriarsi delle attività industriali per riciclare i proventi dei loro traffici criminali.
E quello, è nemico più tentacolare di quello ideologico e terroristico che ha affrontato con successo. Al Procuratore viene quindi rafforzata la scorta perché è ad un passo dal chiudere un’indagine proprio contro una delle cosche che opera a Torino.
La sera del 26 giugno 1983 Caccia è appena rientrato a casa dopo una giornata passata fuori porta. Fa caldo, e in Italia si vota per le ennesime elezioni politiche. Bruno Caccia lascia libera la scorta ed esce con il cane per un piccolo giro intorno alla sua abitazione che si trova in via Sommacampagna. Cammina placido verso corso Moncalieri, da li quasi si vedono gli argini del Po, e sarà quella l’ultima immagine che si fisserà nella mente del Magistrato. Una 128 bianca gli si avvicina e qualcuno da dentro spara una ventina di colpi quasi tutti a segno. Uno degli occupanti del commando di fuoco esce dalla macchina e sparerà ben tre colpi di grazia. Chi ha sparato voleva assolutamente esser certo che quella fosse l’ultima giornata del Procuratore Capo di Torino. Un’esecuzione cruenta.
Quella sera, una telefonata anonima rivendica l’esecuzione come opera delle Brigate Rosse, ma quella rivendicazione è falsa: perché mai i terroristi di sinistra dovevano colpire il Procuratore? Certamente una possibile vendetta per il suo lavoro investigativo, è chiaro che colpire il Capo della Procura quando ci sono ancora molti militanti sotto processo può esser d’esempio. Ma proprio chi è in carcere tra le B.R. si dissocia: «non siamo stati noi.»
Gli inquirenti che operano nel Nord non sono ancora preparati ad allargare il campo ad ipotesi alternative a quella terroristica per delitti come questi, ed allora la loro attenzione si sposta nella galassia di estrema destra. Si indaga quindi sui N.A.R. con grande impegno, ma nulla che lascia pensare ad un loro coinvolgimento. E poi manca la rivendicazione. Possibile che chi spara ed uccide in quella maniera così plateale se ha una motivazione ideologica non lo rivendica?
Qualche mese dopo però, un boss della mafia catanese, Francesco Miano, detenuto a Torino decide di raccontare una storia: lui sa è stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia. Diventa Miano un collaboratore di Giustizia e accetta di farsi microfonare di nascosto e di andare a fare due chiacchiere con Domenico Belfiore, un boss calabrese che opera e delinque a Torino. E Belfiore tra un bicchier di vino e uno spaghettino ai frutti di mare racconta a Miano la verità: «lo abbiamo ucciso noi Bruno Caccia, cu’ chiddu non si putiva parrari.» Parlare di cosa? Ma d’affari chiaramente! Perché quello era il salto di qualità che la cosca voleva fare: entrare nel palazzo della Procura. Ma con Caccia vivo era impossibile.
Domenico Belfiore viene arrestato, è lui il mandante dell’omicidio Caccia, non c’entra nulla il terrorismo, il motivo della sua condanna a morte da parte degli ‘ndranghetisti è terribilmente semplice: è un uomo dello Stato. Tutto d’un pezzo. Belfiore è condannato all’ergastolo. Ma chi ha sparato quella sera di giugno con Belfiore?
Si brancola nel buio per tanti anni, Bruno Caccia viene dimenticato dalla cronaca, del resto un colpevole c’è. Ma manca chi ha sparato quei tre colpi di grazia. E dopo 30 anni la famiglia del Procuratore chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Milano. Se ne occupa Ilda Boccassini e agli inquirenti viene in mente un’altra idea geniale: inviano una lettera anonima a Belfiore, che nel frattempo è uscito dal carcere. Un articolo di giornale che parlava di Caccia e un nome scritto a penna: Rocco Schirripa, che ora fa il panettiere a Torino ma che all’epoca era un luogotenente della cosca.
E il colpo va a segno. C’è immediatamente un traffico telefonico tra Shirripa, Belfiore a altri affiliati, evidentemente rimasti in contatto a dispetto degli anni di galera del boss.
Il 22 dicembre 2015, 32 anni e mezzo dopo quell’omicidio la DDA di Milano arresta Rocco Schirripa.
«Sono innocente, non c’entro nulla con l’omicidio: le mie frasi intercettate sono state fraintese» riesce a dire agli uomini dell’antimafia che lo portano in carcere.
«Sono emozionata» dice Ilda Boccassini, che ha lavorato con passione a questa indagine insieme al sostituto Procuratore Tatangelo: «le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali. L’inchiesta però non è conclusa, stiamo verificando se l’omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore anche con il beneplacito dell’organizzazione in Calabria
Ma non è finita qui. Già, perché quel giorno, il 26 giugno 1983, c’erano almeno cinque persone nel commando. Ma solo due sono state condannate per il delitto del procuratore di Torino, di cui solo una presente all’omicidio.
Le indagini non si sono fermate da quel colpo di scena dell’arresto di Schirripa. Mancavano altri nomi all’appello. SI è lavorato per 8 anni ancora, ma inutilmente. E nel 2023, a distanza di quarant’anni, la posizione di altri due potenziali killer è stata archiviata: «Si ritiene che non si possano fare ulteriori accertamenti investigativi in grado di condurre a una ragionevole prognosi di condanna di altri sospettati per l’omicidio Caccia» chiosa il PM Mattia Fiorentini che ha preso in mano le indagini dopo il 2015.
Così il giudice per le indagini preliminari di Milano ha accolto la richiesta della Procura lombarda, che ha preso atto di quanto raccolto negli anni, tra soffiate, dichiarazioni di pentiti che si scontrano tra loro e intercettazioni in cui altri nomi si fanno ma… senza riscontro. “Troppo poco per chiarire i punti oscuri a quei fatti del 1983 e dare un volto a quei killer rimasti anonimi per quarant’anni”.A complicare, e determinare come negli ultimi anni di piombo la correlazione tra malavita, mafia e terrorismo fosse ormai consolidata, sta nel fatto che uno degli accusati poi archiviati, era un ex militante dei Colp, formazione eversiva di estrema sinistra nata dalla dissoluzione di Prima Linea. A Torino gli investigatori dell’antimafia erano convinti che fosse anche legato alla criminalità calabrese e che abbia avuto un ruolo nel delitto Caccia. Eversione nera, rossa e ‘Ndrangheta. Tutti volevano la morte di quel servitore dello Stato coraggioso e poco incline a farsi piegare dagli eventi. La verità sull’omicidio di Bruno Caccia l’abbiamo. Ma non è e mai sarà completa.

Author: Mauro Valentini

Scrittore e giornalista romano. Scrive principalmente di cronaca nera e di cinema collaborando con diverse testate nazionali. È autore di romanzi Noir metropolitani e di libri inchiesta. Tra questi: "Non perder tempo a piangere" che racconta la vita di Nadia Toffa, “Mio figlio Marco – La verità sul caso Vannini” scritto con la mamma di Marco, Marina Conte, "Ciccio e Tore – Il mistero di Gravina" scritto insieme al Generale Luciano Garofano già Comandante dei RIS di Parma, sempre in collaborazione con il Generale Luciano Garofano, ha pubblicato nel 2024 il libro inchiesta: "Alda Albini – Anatomia di un mistero". E' ospite di numerosi programmi e trasmissioni di rilevanza nazionale come: Storie Italiane (Rai Uno), Chi l’ha visto (Rai Tre), Melog (Radio24) ed è opinionista, tra le altre, delle trasmissioni: La storia oscura, PRISMA e Crimini e Criminologia di TV Cusano Campus.

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