
9 agosto 1991. Il giudice Antonino Scopelliti raccoglie frettolosamente il telo mare, chiude l’ombrellone e risale le ripide scalette che dal lido di Campo Calabro portano sulla strada dove ha parcheggiato la sua auto, una Bmw 318i.
Sono le 17.20 quando percorre la statale 18 che collega Napoli con Reggio Calabria. È senza scorta. Poco dopo Ferrito, piccola frazione di Villa San Giovanni, nei pressi del cimitero di Cannitello, c’è una moto ad attenderlo. A bordo due uomini. Lo affiancano. “Col primo colpo i vetri del finestrino ci sono arrivati addosso, un secondo colpo ha raggiunto il giudice alla nuca (…) l’auto è andata avanti per altri quindici, venti metri. Abbiamo usato un fucile a canne mozze, caricato a pallettoni”. Il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, uno dei sicari al servizio di Nitto Santapaola, capo della cosca mafiosa che controllò per decenni Catania e l’intera Sicilia orientale, ha confessato di aver partecipato all’agguato. “L’ordine arrivò dai boss Aldo Ercolano e Marcello D’Agata. Me lo dissero cinque giorni prima, dopo una riunione a cui partecipò anche Matteo Messina Denaro. Non ci fu alcun appoggio da parte dei calabresi”. La confessione resa da Avola ai magistrati di Caltanissetta, e poi confermata a Reggio Calabria durante il processo ‘Ndrangheta stragista, ha portato, a distanza di 34 anni, la polizia scientifica sulla strada che collega Ferrito a Piale. È stata ricreata la scena del delitto, con due agenti, in tuta bianca e armati di fucile, a bordo di una Honda Gold Wing 1200, una moto fuori produzione da anni ma recuperata per la ricostruzione della dinamica dell’agguato. Sul posto è stata portata, con un carroattrezzi e una gru, la Bmw a bordo della quale viaggiava il magistrato. “L’auto di papà ci è stata consegnata a conclusione di tutto il percorso giudiziario – ci ricorda Rosanna Scopelliti – Mia madre ed io non abbiamo voluto rottamarla: aveva raccolto gli ultimi respiri di mio padre e per questo l’abbiamo tenuta e protetta per tutti questi anni. E sono felice che questa scelta sia servita oggi a dare qualche elemento in più agli inquirenti. Perché una ricostruzione dell’agguato può essere utile”.
Con ogni probabilità, la decisione di riprodurre la dinamica del delitto a distanza di così tanti anni, è dovuta dalla necessità della Dda di riscontrare le dichiarazioni di Avola, già entrato a gamba tesa in altri eclatanti casi. Il collaboratore ha infatti raccontato di aver partecipato all’omicidio del boss della banda della Magliana Renatino De Pedis, avvenuto a Roma il 2 febbraio del 1990, un omicidio rimasto irrisolto ma attribuito dai pentiti della banda della Magliana ad altri, non ad Avola. Tra l’altro, proprio in quel periodo, il collaboratore di giustizia, risulta sottoposto alla sorveglianza speciale a Catania, quindi per lui sarebbe stato impossibile, quantomeno difficile, raggiungere Roma per uccidere il boss dei testaccini. Avola, quindi, potrebbe aver mentito anche sulla strage di via D’Amelio. Perché, nel 2020, dopo più di 25 anni dall’inizio della sua collaborazione con la giustizia, ai magistrati di Caltanissetta rivela il suo crimine più efferato: dice di aver partecipato alla strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Folgorato sulla via di Damasco, confessa. E dà alle stampe il libro delle sue memorie. Una conversione che potrebbe – il condizionale è doveroso – far parte di un progetto più grande, con Avola protagonista (consapevole e manovrato) dell’ennesimo depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Per accreditarsi, e accreditare le sue dichiarazioni, due anni prima, rivela verità sull’omicidio Scopelliti. Solo ipotesi, certo.
“La magistratura ha la massima fiducia mia e della mia famiglia – precisa Rosanna Scopelliti – e le informazioni che ha dato Avola hanno dato dei riscontri. È grazie alle sue dichiarazioni che è stata trovata l’arma”.
A sparare sul giudice sarebbe stato un fucile calibro 12 di marca spagnola che nel 2018 Avola fa ritrovare in provincia di Catania in un terreno nel comune di Belpasso di proprietà di un soggetto legato alle cosche siciliane e alle famiglie calabresi.
Quando fu ucciso il giudice stava preparando il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Sulla scorta delle reboanti rivelazioni avoliane, nel 2019 il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo iscrive nel registro degli indagati 17 persone, tra cui anche il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro e il boss della ‘ndrangheta Giovanni Tegano, entrambi deceduti. Quindici quelli ancora vivi, alcuni già in carcere, come Antonino Pesce e Santo Araniti, uomo chiave del clan dei De Stefano arrestato a Roma con in tasca un cellulare intestato al vice delegazione del Vertice G7 presso la Farnesina. “Dubbi che devono essere chiariti. Perché c’è tanto dietro l’omicidio di mio padre. Erano gli anni in cui criminalità, mafia e massoneria andavano a braccetto. Ora che le indagini sono ripartite mi auguro che, almeno questa volta, al giudice Antonino Scopelliti sia garantito solo ciò che lo ha portato alla morte: la Giustizia”.
(pubblicato sulla Libertà di Piacenza il 10 aprile 2025)